Femminicidi, la punta di un iceberg

Negli ultimi tempi, con la pandemia mondiale, in particolare durante i mesi di lockdown, le telefonate ai numeri anti violenza sono aumentate del 73% rispetto allo stesso periodo del 2019.

I femminicidi avvenuti nel contesto familiare hanno raggiunto nel 2020 il triste record dell’89% sul totale. Il femminicidio è spesso la punta di un iceberg, la cui parte sommersa fatta di soprusi, maltrattamenti, violenze si dispiega nel tempo, offuscata da una coltre di silenzio. Alla radice della violenza maschile spesso si pongono “la vendetta per la dipendenza infantile dalla madre, per l’esclusione edipica e per le ferite narcisistiche” (Bolognini, 2013).

Lo psicoanalista Peter Fonagy sostiene che gli uomini che esercitano violenza sulle donne provano, dopo gli episodi violenti, uno strano stato di tranquillità, un repentino calo di tensione. Una calma che viene vissuta come il risultato della riuscita demolizione dell’indipendenza psichica della donna che finisce per essere, ancora una volta, solo il veicolo dei processi proiettivi patologici del suo partner.

In altre parole, i processi proiettivi rappresentano le parti inaccettate di sé, parti deboli e impaurite, che il maltrattante scarica e rivede nella partner.

L’obiettivo dell’uomo violento è eliminare la donna che ha imprudentemente e dolorosamente tentato di esercitare il proprio diritto di individuo a essere qualcosa di più che una discarica per le emozioni intollerabili del partner.

La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne istituita dall’Onu, (che si celebra il 25 novembre) è l’occasione per creare uno spazio di riflessione su un tema così dilagante e complesso, con l’intento di attuare strategie di prevenzione.