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TEATRO

"Tito/Giulio Cesare" approda al Bonci di Cesena

Di seguito la recensione curata dal nostro Paolo Turroni

"Tito/Giulio Cesare" approda al Bonci di Cesena

Shakespeare e il potere

Ovvero, come riscrivere il più grande drammaturgo del mondo senza perdere nel confronto. “Tito/Giulio Cesare” è un lavoro ideato da Gabriele Russo, nell’ambito del progetto “Glob(e)al Shakespeare”, vincitore del premio 2017 dell’Associazione Nazionale Critici. I due drammi sono stati trasformati in due atti unici, presentati in forma di dittico, rispettivamente scritti da Michele Santeremo e Fabrizio Sinisi e diretti da Gabriele Russo e Andrea De Rosa.

Tito

La prima metà del dittico riguarda “Tito Andronico”, la prima tragedia di Shakespeare, il suo primo viaggio nel mondo di Roma. In realtà quella del “Tito” è una Roma di totale fantasia, in cui imperatore diventa il lussurioso e debosciato Saturnino. La meno nota delle tragedie shakespeariane ebbe nel 1999 una trasposizione cinematografica con Anthony Hopkins nel ruolo del titolo, in una elaborazione postmoderna diretta da Julie Taymor. Bisogna riconoscerlo con franchezza: se “Tito Andronico” non avesse in calce il nome di William Shakespeare ben difficilmente potrebbe ambire ad essere di interesse per un vasto pubblico. Ci troviamo, infatti, di fronte al più classico dei “revenge plays”, le tragedie in cui un personaggio subisce dei torti e si vendica in modo cruento e crudele: ricordiamo che nel teatro elisabettiano, a differenza di quello greco, gli atti di violenza avvenivano di fronte al pubblico, con tanto di litri e litri di sangue versato, e alla bisogna, anche il versamento di budella animali (né più né meno che in un film splatter di oggi). Il generale romano Tito, dopo aver sconfitto i Goti, torna a Roma, rifiuta la corona imperiale, fa sì che venga eletto imperatore Saturnino, il figlio maggiore del defunto imperatore, e lascia che i suoi figli uccidano il più giovane dei figli della regina Tamora, la regina dei Goti, portata in catene a Roma coi suoi figli. Da questo delitto deriveranno tutte le tragedie successive. Saturnino, infatti, vorrebbe sposare Lavinia, figlia di Tito, per ringraziarlo di averlo eletto imperatore, ma Lavinia è già promessa al fratello minore di Saturnino. La regina Tamora, con astuzia, allora, diventa la nuova moglie dell'imperatore, per potersi vendicare del generale romano. I due figli della regina uccidono il fratello dell'imperatore e violentano Lavinia: per impedirle di rivelare chi ha commesso il duplice delitto, non solo le tagliano la lingua (questo era già nel mito di Filomela, come ci viene narrato da Ovidio), ma le tagliano anche le mani, affinché non possa scrivere. Tito viene a scoprire quel che è successo, e che un suo figlio, accusato dell'omicidio, è stato giustiziato. Nel testo shakespeariano c'è un altro dettaglio macabro, che la versione cesenate ha abbandonato: la regina Tamora, fingendo di intervenire per salvare la vita del figlio, chiede a Tito di tagliarsi una mano, cosa che il vecchio generale fa prontamente, ma invano, perché subito dopo gli viene consegnata la testa mozzata del figlio. Tito, infine, riesce a vendicarsi, una volta scoperta la verità, catturando i due figli di Tamora, trasformandoli in un pasticcio di carne che serve proprio alla regina (anche qui una ripresa dal mito di Atreo e Tieste, come ci viene narrato da Seneca). Alla fine quasi tutti i personaggi muoiono in scena, in una vera e propria carneficina. La cosa più interessante di questa sintetica versione del dramma è il rapporto fra tragedia e recitazione, per cui i personaggi passano costantemente da dentro a fuori la vicenda. Un'idea molto bella, che svecchia il dramma, e che si connette in modo efficace con una scenografia estremamente simbolica. Avrebbe giocato a favore dello spettacolo un maggiore uso di questo rapporto fra recitazione nello spazio simbolico del palcoscenico e recitazione al di fuori di esso, oltre ad un uso più massiccio dell'humor nero, che, laddove usato, rendeva il dramma di grande fascino, perché nonostante gli orrori compiuti dai personaggi non si poteva fare a meno di ridere, o sorridere.

Giulio Cesare

Nel caso del più importante dei drammi romani di Shakespeare l'effetto cambia completamente: se la poca fama del “Tito Andronico” permette ad ogni regista di sbizzarrirsi ad inventare, confrontarsi con uno dei testi più famosi del Bardo significa entrare in un agone con generazioni intere di attori e registi. La scelta di Andrea De Rosa, insieme al drammaturgo Fabrizio Sinisi, spoglia il dramma di tutto, riducendolo ad una riflessione post mortem. Cesare è steso sul palcoscenico, avvolto nelle bende funebri, e Antonio lo seppellisce lentamente con la terra fuoriuscita da un enorme sacco che lui stesso ha pugnalato. Intanto i tre congiurati Bruto, Cassio, Casca, ragionano sul rapporto fra loro e Roma, e fra Roma e la libertà. Le parole, in più di una occasione, sono quelle originali del dramma, ma rielaborate e rivissute. Alla fine Marco Antonio pronuncerà la sua famosa orazione, ma del testo originale resta ben poco, e capiamo con chiarezza che in realtà non del Cesare antico si sta parlando, ma del potere in sé, di chi decide di comandare sugli altri esseri umani. Questo secondo dramma si concentra su recitazione e uso delle voci, in particolare nella bellissima scena finale in cui i quattro attori, in un concerto recitato, descrivono la battaglia di Filippi, che diventa lentamente e inesorabilmente una scena di guerra moderna, modernissima, in cui arrivano carri armati, bombe, e gas velenosi, e la città distrutta assomiglia, anzi, diventa proprio una delle tante città martoriate che abbiamo potuto vedere anche in questo XXI secolo già così ingombro di violenze.

Due drammi, un dramma

Riflettendo sull'operazione portata avanti in questo modo, va riconosciuto che questo sistema di rielaborazione dei drammi shakespeariani permette di allestire opere in tempi adatti alla fruizione di uno spettatore che non riesce più ad avere la pazienza di osservare per ore i testi integrali. In particolare per il “Giulio Cesare” l'estrema sinteticità è legata al fatto di essere la seconda parte di un dittico, e se nel “Tito” erano al lavoro 12 attori, nel “Cesare” ne sono bastati 4. Ci si può chiedere se mettere al posto del “Tito” il più interessante “Coriolano” non avrebbe reso la proposta più interessante, più drammaturgicamente connessa: come il “Giulio Cesare” anche il “Coriolano” è una riflessione sull'amor di patria, riferito in particolare alla famiglia come piccola patria. Ad ogni modo, un'operazione di grande interesse, che il pubblico presente venerdì sera al “Bonci”, anche se non molto numeroso, ha salutato con calorosi applausi.

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