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Amore e libertà

Sui gay pride la vera domanda è: l'amore è un diritto?

È il diavolo che ci fa credere di essere i padroni della nostra vita

Sui gay pride la vera domanda è: l'amore è un diritto?

Caro direttore,

durante il mese di giugno diverse città italiane si sono vestite di arcobaleno per celebrare i gay pride. Alcuni amici in diverse circostanze mi hanno invitato a partecipare, o si sono limitati a informarmi di quanto il mondo si stia evolvendo grazie a queste battaglie per i diritti degli omosessuali e per la libertà in amore. Con un sorriso ho declinato l’invito, ma incuriosita ho posto una domanda a me stessa e a chi ai gay pride partecipa con fervore: crediamo davvero che amarsi sia un nostro diritto?  Credo infatti che, prima di scendere in campo e combattere per i diritti altrui, prima di difendere a spada tratta il diritto di amare chi uno vuole, sia opportuno interrogarsi su cosa sia l’amore per noi. Ecco perché voglio riproporre questa domanda: l’amore è un diritto?

Poniamo di sì, che sia un diritto nel senso proprio del termine, ovvero, come afferma la Treccani, una «facoltà o pretesa, tutelata dalla legge, di un determinato comportamento attivo od omissivo da parte di altri». Allora se l’amore è un diritto, una pretesa tutelata dalla legge, è assolutamente giusto, lecito e razionale battersi perché tutti possano usufruirne. E se abbiamo la razionalità dalla nostra parte, allora di certo il nostro ragionamento è incrollabile: amarsi è un diritto e in quanto tale io posso scegliere se preferisco amare un uomo piuttosto che una donna, perché è tutto nelle mie mani.

Vede direttore, il grande vantaggio di studiare Lettere, è che questa facoltà fornisce tutti gli strumenti necessari per poter dare un giudizio critico sulle cose del mondo. È sorprendente vedere che, ad esempio, se prendiamo un’opera come la Divina Commedia, troveremo al suo interno un passo che riporta proprio questa idea così contemporanea: l’amore come diritto.

«Amor, ch’a nullo amato amar perdona,/ mi prese del costui piacer sì forte,/ che come vedi, ancor non m’abbandona». Forti e potenti sono le parole di Francesca nel V canto dell’Inferno: quando uno è amato, non può non ricambiare. Non importa chi tu abbia davanti: l’amore è così potente che travolge tutto. La storia di Paolo e Francesca immagino la conoscano tutti, così come immagino che, quando ci si imbatte per la prima volta in essa, non si possa fare a meno di provare un moto di ingiustizia. Perché due che si amano sono finiti all’Inferno? Come può l’amore essere un peccato? Perché il loro amore è sbagliato o meglio chi ha il diritto di giudicare il loro amore sbagliato? Dopotutto lei, vincolata da un matrimonio contrattuale, si è solo innamorata di un altro uomo. Può l’amore essere una colpa? Razionalmente no e sempre razionalmente la presenza di Paolo e Francesca all’Inferno è totalmente ingiustificata: loro due si amavano, per cui non possono essere colpevoli.

Eppure, ci sono alcuni elementi che sgretolano la figura di Francesca e il suo ideale di amore. Uno di questi è che Francesca, se da una parte è capace di affabulare i lettori attraverso il suo commuovente discorso che ricalca anche il De Amore di Cappellano, dall’altra si preoccupa accuratamente di omettere qualsiasi riferimento alla parte del trattato in cui si accenna alla possibilità dell’amato di non ricambiare l’amante. Francesca considera l’amore come un suo proprio diritto, come una cosa che le appartiene, che le è dovuta, eliminando totalmente la libertà dell’altro. Ma eliminando la libertà e appropriandosi dell’amore come se fosse un suo diritto la sua storia finisce nel sangue e nella dannazione eterna.

Resta però il problema della razionalità. Libertà o meno, quello che Francesca fa, lo fa seguendo un desiderio che razionalmente pare giusto. E allora come è possibile che Francesca sia finita all’Inferno? Come è possibile condannare un uomo se sta solo seguendo un suo desiderio che all’apparenza sembra razionalmente giusto?

Dante risponde anche a questo, in un altro passo dell’Inferno, più precisamente nel canto XXVII, attraverso la lotta tra San Francesco e un diavoletto per accaparrarsi l’anima di Guido da Montefeltro. Alla fine di questa scena quasi comica, con grande sorpresa di Guido, è il diavoletto a trionfare, appellandosi al principio di non contraddizione. Interessante è il termine con cui il diavoletto si definisce: löico, logico. Per vincere infatti, la creatura infernale fa ricorso allo stesso strumento su cui fa affidamento Guido: la razionalità. Guido è sicuro di essere salvo perché il Papa gli ha promesso l’assoluzione, perciò razionalmente la sua anima dovrebbe essere presa da San Francesco; ma il diavoletto gli ricorda che altrettanto razionalmente non è possibile salvare chi non si è pentito e così, ingannato dalla sua convinzione di essere nel giusto, Guido finisce tra i dannati.

Ciò che Guido credeva era razionale, incrollabile ai suoi occhi, così come razionale e giusto era il desiderio di Francesca. Ma come Dante ci rivela, anche il diavolo è razionale, tremendamente razionale, perché solo così può vincere. Solo così può confondere gli uomini facendo credere loro di essere i padroni della vita, legittimandoli di conseguenza a trasformare l’amore e la salvezza in un loro diritto, in una loro proprietà, allo stesso modo di Francesca e Guido.

Dopotutto come fa notare Berlicche, un altro diavoletto appartenente alla letteratura inglese del XX secolo, al nipote Malacoda: «Gli esseri umani s’inventano continuamente pretese di proprietà che suonano ugualmente ridicole in Cielo e nell’Inferno, e noi dobbiamo mantenerli su questa linea. […] Noi riusciamo a produrre questo senso del possesso non soltanto per mezzo dell’orgoglio, ma per mezzo della confusione. Insegniamo loro a non far caso ai diversi significati del pronome possessivo, alle differenze sottilmente graduate che vanno dalle “mie scarpe” […] fino al “mio Dio”. Si può insegnare loro a ridurre tutti codesti significati a quello delle “mie scarpe”, al “mio della proprietà”» [Le lettere di Berlicche, C.S. Lewis], al mio diritto, oserei dire. Eppure il diavoletto Berlicche, conoscendo la realtà delle cose, conclude il suo discorso dicendo: «Alla fine, non temere, s’accorgeranno a chi veramente appartenevano il loro tempo, le loro anime e i loro corpi… certo non a essi, qualsiasi cosa capiti».

Allora meditiamo, pensiamo se davvero possiamo definire l’amore come un diritto, una proprietà dell’uomo.

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